MAXXI BVLGARI PRIZE a sostegno dei giovani talenti nell’arte

In mostra al MAXXI le opere site specific dei tre finalisti del MAXXI Bvlgari Prize: Giulia Cenci, Tomaso De Luca e Renato Leotta. Prorogata fino al 2 Maggio 2021

Giovanna Melandri e Jean-Christophe Babin (AD di Bvlgari)

MAXXI BVLGARI PRIZE

Roma. Per la seconda edizione del MAXXI BVLGARI PRIZE – il progetto che unisce il MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo e Bvlgari emblema di eccellenza italiana – sono in mostra al MAXXI fino al 7 marzo 2021 le opere site specific dei tre finalisti del premio: Giulia Cenci, Tomaso De Luca e Renato Leotta. I tre artisti sono stati scelti da una giuria internazionale composta da Hou Hanru (Direttore Artistico del MAXXI), Bartolomeo Pietromarchi (Direttore del MAXXI Arte), Manuel Borja-Villel (Direttore del Museo Reina Sofía, Madrid), Emma Lavigne (Presidente del Palais deTokyo, Parigi) e Victoria Noorthoorn, Direttrice del Museo di Arte Moderna di Buenos Aires.

Giulia Cenci

Le opere dei tre finalisti sono state pensate, prodotte e realizzate appositamente per il premio ed esposte in una mostra che coinvolge lo spettatore fin dalla hall e si articola nella suggestiva Galleria 5, al terzo piano, dalla scenografica vetrata con vista panoramica su piazza Alighiero Boetti. Prima della fine della mostra la stessa giuria internazionale sceglierà il vincitore, la cui opera entrerà a far parte della Collezione MAXXI, dialogando con l’architettura di Zaha Hadid.

Giulia Cenci, lento-violento (defeated), maggio 2020, bozzetto preliminare, carta, inchiostro

GLI ARTISTI: GIULIA CENCIRENATO LEOTTATOMASO DE LUCAInformazioni

GIULIA FERRACCI, la curatrice della mostra

La curatrice Giulia Ferracci ha spiegato come la mostra sia anche: “Un’occasione per i giurati di visionare i lavori dal vivo e poterli apprezzare. Dopo la giuria si riunirà online, o fisicamente se sarà possibile, per decretare il vincitore. Questo è un progetto di commissione. Ogni artista ha lavorato circa un anno per la realizzazione di tre grandi installazioni che sono una sorta di monografiche perchè ognuna ha una molteplicità stratigrafica di opere”.

Giulia Cenci, lento-violento (defeated),, 2020

La curatrice ha poi illustrato le opere degli artisti per il MAXXI Bvlgari Prize: “Per esempio per Renato Leotta abbiamo lavori diversi. Un video è stato girato nell’area sacra di Torre Argentina con questi felini che sornioni abitano un luogo storico. Quindi le riprese delle fontane (la Barcaccia, Fontana di Trevi e i Quattro Fiumi), una passeggiata ideale all’interno della città. Ha girato soprattutto nel periodo del Covid, quando la città era pressochè deserta.
Il lavoro di Tomaso De Luca è un lavoro assolutamente colto, stratigrafico, pieno di riferimenti: all’architettura di Gordon Matta Clark, alla cinematografia, al Mago di Oz, a Buster Keaton, al cinema muto. Questo lavoro parte da un fatto storico. Quando negli anni Ottanta a San Francisco, in un quartiere chiamato Castro, molte persone della comunità gay iniziano a morire a causa dell’AIDS. Molte abitazioni di questi defunti, che non avevano parenti o erano stati disconosciuti, diventano oggetto di gentrificazione.

Giulia Cenci, lento-violento (ring), 2020

Questi immobili vengono tolti, gli oggetti personali, i mobili vengono gettati in strada cercando di cancellare la loro storia. De Luca parte da questo episodio per raccontare come sia possibile decostruire l’idea di casa. Tutto quello che per noi rappresentano le regole, il patriarcato, tutto ciò che è solido inizia a diventare un tema di riflessione. Riflessione sulle linee per creare un mondo elastico, dove le case cadono. Dove è possibile fare del trauma un territorio di abitazione, superamento, bellezza. Inizia a costruire dei modellini (esposti nella living room) dove questi elementi fragili perdono il loro valore per riacquistare il valore della casa che uno ha dentro di sè. Una nuova idea di domesticità e di costruzione della propria intimità. Perchè la casa altro non è che uno spazio di intimità. Si tratta di un lavoro molto poetico, suggestivo”.

Giulia Cenci, lento-violento, (ring) , particolare, 2020

A proposito di GIulia Cenci la curatrice spiega: “Il lavoro di GIulia si compone di quattro gruppi scultorei. Il primo, quello vicino all’ingresso è un ring ideale, la seconda scena un branco di cavalli in corsa, il terzo, sotto il retro di un cavallo in primo piano, è quello che Giulia definisce prigione verticale, realizzata con cancellate di porcili, materassi vecchi, telai di finestre etc. Tutti materiali di riciclo tranne i calchi di sculture in resina a cui applica una colorazione in parte derivante dai materiali del suo studio con applicazione di blu cobalto, rosso ercolano e porpora di colore. Il retro di cavallo lei lo definisce “big macho”. Nell’ultima scena un cane ne porta a passeggio un altro e sopra una sorta di macchina-dinosauro sovrasta tutta scena.

Giulia Cenci, lento-violento (defeated), 2020 (Giulia Cenci con Jean-Christophe Babin)

Questo lavoro che combina gli animali e l’uomo, nasce come riflessione sulle condizioni di genere che viviamo, ma è una guerra senza tempo, di genere, di specie. Una guerra invisibile di cui siamo carnefici e vittime allo stesso tempo. In questa sorta di prigione ci ritroviamo governati da un mostro acefalo, una sorta di Cerbero, da cui si propaga la nostra condizione esistenziale, il capitalismo, la necessità di produrre in eccesso. Alcuni di questi animali sono agghindati con una serie di oggetti inutili: cappellini, occhiali, elmetti, parastinchi. Giulia aveva una nonna, Maria Cenci Soffiantini, che era una illustratrice, negli anni Quaranta, di cartoline per bambini. Intorno al 1947 realizzò una serie di cartoline con delle piazze con bambini su cui sorvolava uno Zeppelin, un dirigibile che garantiva la pace e la tranquillità. Lei ha sempre visto in queste cartoline la minaccia della guerra che poteva tornare”.

Giulia Cenci, lento-violento, 2020

GIULIA CENCI

L’artista Giulia Cenci (Cortona, 1988, vive e lavora tra Amsterdam e la Toscana) ci ha parlato del suo lavoro e dell’opera in mostra: “Sono circa nove mesi che vivo a Cortona, a Pietraia, in campagna. Mi sono trasferita lì per l’esecuzione di questa opera. Quando sono stata invitata dal Museo per il MAXXI Bvlgari Prize già nelle prime settimane ho capito che mi interessava lavorare in questi canyon vertiginosi del MAXXI. Mi è piaciuto lavorare ad un’opera complessa ma ad hoc per questo spazio. Il lavoro nasce qui anche nei suoi contenuti. Quando ho fatto i sopralluoghi mi sono resa conto che questo luogo poteva essere un habitat perfetto per ambientare delle scene che lavorassero su una idea di società contemporanea, delle sue sfaccettature e della idea di forti conflitti che possiamo vivere nella nostra epoca con una struttura imponente, molto forte e le fragilità che viviamo ogni giorno.

Giulia Cenci, lento-violento (vertical prison), 2020

Il visitatore è costretto in qualche modo a moversi rispetto a questa sorta di percorso che l’architetto ha realizzato”.
D. Questo progetto quando nasce prima o durante la pandemia?
R. Noi siamo stati selezionati a luglio del 2019. Io sono stata selezionata da Marianna Vecellio (curatrice al Castello di Rivoli). I primi sopralluoghi, anche molto lunghi, li ho fatti quasi immediatamente, in periodo pre-covid, perchè per me lo spazio è un punto di partenza fondamentale. Il progetto parte pre-covid ma è cambiato e si è evoluto durante il lockdown. Specialmente quest’ultimo gruppo, dove c’è un balcone con una figura che porta a spasso un cane, è ispirato all’idea metafisica di piazza italiana semi-deserta in cui c’è uno spazio delimitante di un balcone che non si capisce più se sia un luogo pubblico o privato, dove l’esigenza di animale domestico diventa un’esigenza fondamentale per poter uscire di casa. Quindi è un lavoro ispirato a questo momento.

Giovanna Melandri

D. Quali sono i motivi della scelta di studiare e lavorare ad Amsterdam?
R. Quando mi sono diplomata all’Accademia di Bologna volevo rifugiarmi da qualche parte per lavorare più in studio, fino allora avevo un lavoro soprattutto installativo, meno scultoreo e mi sembrava di essere etichettata rispetto alla mia cerchia di amici. Volevo stare in un posto in cui concentrarmi molto, avevo bisogno, a 23 anni, anche del pretesto di un master che mi facesse partire. Trovai questo master in Fine Art nella città di Jheronimus Bosch, che era l’ideale perchè aveva degli ottimi laboratori, era tranquillo, anche dal punto di vista sociale perchè c’erano pochi iscritti. La retta era paragonabile a quella italiana. Il master (in inglese) è durato due anni, ed è stato un po’ un isolamento. Alcuni miei tutor mi portarono al De Atelier di Amsterdam, una residenza per artisti prestigiosa, dove vengono selezionati ogni anno dieci giovani artisti internazionali. Sono stata selezionata per fare un percorso di ricerca di due anni, in cui ti vengono dati uno stipendio, una casa e uno studio per lavorare.

Giulia Cenci, lento-violento (ininterrottamente), 2020

D. Il suo mezzo espressivo preferito è la scultura?
R. Io ho studiato pittura e mi sento di fare delle installazioni dove il visitatore può muoversi dentro. Qui c’è un rapporto di distanza forzato in cui magari la relazione è con lo spazio più che con il visitatore. Prediligo i grandi ambienti, le installazioni dove il visitatore non è più un voyeur passivo. In questa opera ho lavorato affinchè si potessero provare delle sensazioni vere e proprie. Per esempio questa scena di cavalli è ispirata dai dettagli di battaglie antiche (Piero della Francesca). Questa scena si chiama lento-violento (defeated) sconfitto, perchè la mia idea è che il visitatore salendo possa essere quasi calpestato visivamente da questa mandria di zampe per poi avere una visione frontale, iconografica, soltanto una volta arrivato in cima al percorso. Dalla hall hai la sensazione che questo lavoro ti sovrasta.

Giulia Cenci, lento-violento, 2020

D. Come sono realizzati questi frammenti di sculture?
R. Le sculture sono dei calchi fatti con gesso evoluto, una sorta di nuova resina molto leggera. Poi vengono lavorati in superficie con delle ceneri che sono quelle della mia stufa a legna. Così le ceneri che mi sono trovata a smaltire le ho utilizzate in questa opera. Tendo a non buttare via mai niente e quindi cerco di trovare degli impieghi a qualsiasi cosa. Molti degli oggetti fanno parte della vecchia azienda agricola che mio padre aveva a Cortona. Sono oggetti che ho preso da lì, sia nella macchina che nella prigione. I cancelli erano quelli delle stalle dei maiali che mio padre aveva recuperato, poi pezzi di letti di qualche casa, il telaio è fatto con un telaio di finestre. Le uniche parti ex novo sono i punti di connessione e sostegno. Le sculture sono dei veli leggerissimi, sono gusci vuoti. Ci sono dei piccoli oggetti che completano le sculture come nel grande macho che sovrasta la prigione.

Giulia Cenci

Per la prima volta introduco la figura umana, ci sono dei frammenti di ossa e volti che provengono da un calco di manichini per la rianimazione, sono esseri svenuti. Io volevo che il macho fosse una figura molto autoritaria, sta dietro ai cavalli, è quello che comanda, un potere assoluto che non ha una testa vera e propria ma ha questi testicoli umani.
Sono un po’ di anni che lavoro con figure di animali che però ricordano delle figure pseudo-umane, nelle loro attitudini, come negli accessori che indossano. Volevo che in qualche modo l’unica parte di testa che avesse questa figura fosse la parte più viscerale che un essere maschile può avere, perchè le guerre le fanno solo gli esseri umani,. Gli animali non fanno guerre, come nella bella poesia di Auden. Questo potere, questa decisionalità è poco intelligente, cauta.

Giovanna Melandri – Presidente della “Fondazione MAXXI – Museo nazionale delle Arti del XXI secolo”

Questo è un lavoro che parla di gerarchie ma non ne vuole avere.
Noi siamo in un’epoca in cui stiamo capendo che il nostro potere sulla terra non è più così forte come pensavamo, ce ne stiamo rendendo conto più che mai in questi giorni. Per me il lavoro è un mezzo per riflettere. La struttura della società è complessa ed in crisi. Sta facendo i conti con secoli di complicazioni strutturali. Siamo arrivati al punto che non riusciamo più a darci una mano. Potrebbe essere un momento di svolta epocale?! Ma non sono fiduciosa. In nessuno dei dibattiti che seguo, in tutta Europa, il problema vero viene affrontato. Pensiamo che sia un virus ad averci fatto male e non consideriamo che siamo noi un virus per il pianeta. Il pianeta sta sviluppando un sistema immunitario più forte che porta a debellarci. Noi siamo il problema: produciamo troppo, sprechiamo troppo, consumiamo troppo. Non c’è l’intenzione di fermarci ed è la cosa più tremenda. Si continua a non parlare di queste cose.

Renato Leotta, Roma 2020

Iniziamo almeno a pensarci. Pensiamo soltanto a come guarire. Cerchiamo di non modificare il nostro stile di vita. Ho visto la difficoltà delle persone molto benestanti ad affrontare questa situazione, rispetto a quelle normali. Essendo abituate a risolvere ogni cosa con i soldi, pagando, è tangibile questa angoscia per qualcosa che con i soli soldi non si può risolvere. Ho visto il panico, la paura totale che rende aggressivi. Noi non abbiamo ereditato nessun grosso trauma, è la prima volta che questa generazione si trova ad affrontare qualcosa di molto grande, la difficoltà è anche questa. Come la può affrontare un adolescente? Come può comprendere una cosa così grande? Noi veniamo da un periodo dorato, in cui ci veniva detto che le guerre erano lontane. Ora tocca pure a noi… Non ci sono mai state così tante incognite rispetto al nemico.
Io volevo comunque parlare di un conflitto, ho sempre creduto che questa invisibilità o distanza dei conflitti fosse una cosa atroce”.

Tomaso De Luca

Giulia contnua raccontando come: “Fin da ragazzina vedevo come ogni cosa si sviluppava e ogni scoperta veniva fatta intorno a un conflitto. Ho sempre creduto che fosse assurdo che l’Occidente fosse distante dai conflitti mentre noi abbiamo continuato ad acquistare prodotti di Paesi dove i conflitti sociali e reali erano in atto. Conflitti che l’Occidente ha usato o ignorato. Mi riferisco a battaglie economiche. A me preoccupano cose come lo scambio di alimenti tra Europa e gli Stai Uniti. La mia idea si articola su vari livelli di conflitto.

Tomaso De Luca, A Week’s Notice, 2020, Video-installazione a tre canali.

Nell’opera volevo dare l’idea di essere sovrastati dal caos, dove di base non c’è un nemico. Una sorta di battaglia, dove comunque c’è un potere, un capo. Un’idea di dominanza, reclusione di essere dipendenti da qualcuno che ha più potere di noi, piccoli esseri lasciati un po’ morire.
Poi c’è una scena di post guerra, un po’ metafisica, uno spiazzo, è il balcone di una casa che mi ha regalato un amico, una piazza semivuota con questo vecchio con il cappellino con la bandierina dell’Italia. Forse un anziano che porta a spasso un altro essere simile a lui. Uno scambio di gerarchie e lui va verso questa grande macchina che lo sovrasta.

Tomaso De Luca, Giulia Ferracci (curatrice), Rentato Leotta, Bartolomeo Pietromarchi ((Direttore del MAXXI Arte), Giulia Cenci

Questa immagine deriva da quello che studiavo da ragazzina sulla seconda guerra mondiale: quando la guerra finisce, la gente esce in piazza e vede un grande Zeppelin che appare sopra di lei. Ciò crea inquietudine e tutti si chiedono ‘cosa mi sta ancora accadendo?’. Questo momento dell’installazione si chiama ininterrottamente. Nel mio lavoro cerco di mescolare momenti di assoluta contemporaneità con scene iconografiche già viste. La prigione è più dedicata a dettagli del nostro paesaggio, come una grossa antenna. Lo Zeppelin viene da una scena della seconda guerra mondiale. Per me è la cosa importante è che deriva da pezzi di diverse generazioni. C’è la sella di un calesse, dei pezzi agricoli contemporanei, dei telai di macchine e di motorini. Ho cercato diversi punti di vista, pittorici e a volo d’uccello”.

RENATO LEOTTA

Renato Leotta (Torino, 1982, vive e lavora tra Torino e Acireale) ha voluto immortalare un paesaggio, Roma, con le proprie stratificazioni culturali e sociali, usando supporti diversi (tessuto, fotografia, video). In largo di Torre Argentina sotto il manto stradale c’è una città antica mentre intorno il traffico convulso freme. Poco più sotto i gatti abitano la zona archeologica. L’artista ha usato per i suoi video una pellicola 16 mm e li ha presentati su 12 schermi che consentono, all’interno del museo, una passeggiata tra le rovine abitate dai gatti. In questa area sacra si realizza la relazione tra società umana e mondo animale.

MAXXI BULGARI PRIZE

Il lavoro di Leotta è un omaggio alla capitale con le sue stratificazioni storiche e antropologiche. Proprio all’arte spetta il compito di ripensare il rapporto dell’uomo con la natura.

TOMASO DE LUCA

Tomaso De Luca (Verona, 1988, vive e lavora a Berlino) in A Week’s Notice, installazione video e sonora su tre canali, trasforma l’architettura domestica in uno spazio che disorienta, dove la precarietà diventa elemento generativo di una ricostruzione. L’opera vuole essere un esito alternativo allo spietato fenomeno della gentrificazione dell’AIDS.
Mentre la comunità omosessuale, tra gli anni Ottanta e Novanta, era duramente colpita dall’epidemia il mercato ne traeva vantaggio. I beni personali venivano gettati per strada e gli appartamenti venivano dati in affitto a persone più sane e benestanti. L’artista presenta la sua concezione poetica sul disfacimento dell’architettura: miniature che volano, crollano e impazziscono per ricercare la bellezza nell’instabilità e facendo del trauma un’opportunità creativa.

Informazioni

MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo
Galleria 5, terzo piano
Via Guido Reni, 4A – Roma
Orario museo: lunedì chiuso, gli altri giorni dalle 11 alle 19.
La biglietteria è aperta fino a un’ora prima della chiusura del Museo
Telefono: 06.320.19.54
Email: info@fondazionemaxxi.it